La Voce di New York. Gli ebrei sotto il fascismo e gli spettri della storia
È giusto e opportuno ripresentare ora al pubblico americano un libro uscito in Italia cinquantacinque anni fa, che ha suscitato, da allora, infinite polemiche e che è stato in diversi punti smentito dalla storiografia più recente? E quanto si sono chiesti, in un dibattito particolarmente vivace, cinque docenti invitati dal John D. Calandra Italian American Institute della CUNY per discutere il libro The Jews in Fascist Italy di Renzo De Felice appena ripubblicato un inglese da Enigma Books. All’evento, ospitato dal Dean del Calandra Anthony Tamburri e in cui ha partecipato anche il Console Generale Natalia Quintavalle, sono intervenuti Ernest Ialongo (CUNY), Frank Hugh Adler (Macalester College), Stanislao Pugliese (Hofstra University), Alexander Stille (Columbia University) e Guri Schwarz (Università di Pisa). L’iniziativa è stata organizzata in collaborazione con il Centro Primo Levi di New York e il Consolato Generale d’Italia in occasione delle Celebrazioni per la Giornata della Memoria del 2016.
Sull’ambizioso studio pubblicato da Einaudi nel 1961 con il titolo Storia degli ebrei italiani sotto il fascismo si è detto e scritto molto. A volerlo furono gli allora dirigenti dell’Unione delle Comunità Ebraiche italiane, che dettero l’incarico a un giovane e sconosciuto studioso e si adoperarono in ogni modo perché gli fossero aperte le porte dell’Archivio di Stato per consultare tutta la documentazione necessaria. Dal momento della sua uscita, il libro non ha mai cessato di suscitare polemiche. In un periodo delicato della politica italiana, le rivelazioni sul passato antisemita di Leopoldo Piccardi, all’epoca segretario del Partito Radicale, costrinsero l’uomo politico alle dimissioni.
Soprattutto, però, a scatenare le critiche fu il progressivo spostamento di De Felice, diventato nel frattempo uno dei più rispettati e potenti storici italiani, su posizioni di comprensione nei confronti del fascismo. E molti studiosi di ebraismo italiano, a cominciare da Michele Sarfatti, attuale direttore del Centro di Documentazione Ebraica Contemporanea, non gli perdonarono di aver dedicato, nel suo studio di oltre cinquecento pagine, solo un’attenzione marginale al ruolo italiano negli anni tragici delle deportazioni dal 1943 al 1945.
Tutto questo, come era ovvio, ha permesso agli studiosi che hanno partecipato alla presentazione al Calandra Institute di confrontarsi e di approfondire una serie di temi che hanno ancora un impatto attuale. Se sia giusto o meno ripresentare in inglese, dopo la prima presentazione già uscita nel 2008, un testo storico indubbiamente datato e con molte lacune è rimasto, probabilmente, un interrogativo senza risposta.
In compenso, l’appuntamento è stato un’occasione per smentire, una volta di più, l’equivoco degli “italiani brava gente”,che troppo spesso ha permesso all’Italia del dopoguerra di auto-assolversi dalla sue responsabilità nei confronti delle persecuzioni razziali, e soprattutto di approfondire le ragioni che portarono un fascismo diventato totalitario a perseguitare una minoranza che faceva parte da millenni del tessuto sociale italiano.
“Come ha riconosciuto Michele Sarfatti – ha osservato durante il dibattito Frank Adler, professore emerito di Scienze Politiche al Macalester College, autore di diversi saggi sull’argomento e ex allievo di De Felice – il primo soggetto del libro sono i fascisti, non gli ebrei”.
Anche se il testo contiene diverse affermazioni che non hanno mai trovato conferma, come quello di attribuire a un piccolo gruppo la decisione di varare le leggi razziali per armonizzare la politica del regime con quella di Hitler, o altre che sono state smentite, come quella che le leggi antisemite non furono mai applicate con rigore, ha in pratica spiegato l’insegnante, il libro può servire ancora oggi a spiegare gli sviluppi del fascismo nel corso degli anni. È, in definitiva, una storia diplomatica che fa capire come, finiti gli anni del consenso, un attacco agli ebrei potesse essere utile a un regime che aveva bisogno di nazionalismo ed era impegnato nelle guerre coloniali e nella repressione della cultura.
Sulle pecche dello studio, nessuno degli oratori ha fatto sconti. Il libro, ha fatto notare Alexander Stille, non ha preso in considerazione affatto la gente comune, gli ebrei al di fuori delle istituzioni comunitarie dell’epoca, e non ha approfondito le conseguenze del Concordato con il Vaticano voluto da Mussolini nel 1929. E limitando le informazioni raccolte ai soli documenti ufficiali degli Archivi di Stato è diventato, in qualche modo, prigioniero delle sue fonti.
“Nessuno potrebbe considerare oggi questo un libro di consultazione accademica aggiornato”, gli ha fatto eco, anche più duro, Gury Schwartz, professore all’Università di Pisa. Gli stessi dirigenti dell’Unione delle Comunità ebraiche, ha raccontato lo storico, volevano che il libro fosse scritto da un non ebreo, ma sapevano anche bene quanto potesse essere difficile scrivere un testo che raccontasse l’antisemitismo in Italia senza smentire apertamente la convinzione, allora diffusa, che la maggior parte degli italiani fossero soltanto “fascisti accidentali”, pronti ad aiutare i loro sfortunati compatrioti. Renzo De Felice, giovane storico in quel momento disoccupato, li aveva accontentati dopo un lavoro di ricerca durato solo dieci mesi.
Piuttosto, ha spiegato Schwartz, la storia di un libro controverso, anche a molti anni di distanza dalla sua prima pubblicazione, può servire a raccontare ancora oggi gli sviluppi e le cose non dette nella politica italiana del dopoguerra. Perché, per esempio, De Felice citò nel suo testo originale il radicale Leopoldo Piccardi, ma non il democristiano Amintore Fanfani? E perché, nel non lontano 1987, all’epoca degli incontri tra Gianfranco Fini e Bettino Craxi, Giuliano Ferrara intervistava lo studioso, sulla prima pagina del Corriere della Sera, per parlare della fine dell’antifascismo?